Dal Mondo
Revolution Soccer Team: quando il futsal è rivoluzione rainbow
Alla scoperta del Revolution Soccer Team, una delle prime squadre di futsal italiane dichiaratamente gay-friendly
Paolo è il presidente di una squadra di calcio a 5 dilettantistica, come ce ne sono centinaia in tutta Italia. Il suo team è nato nel 2009 e da allora partecipa ai campionati CSEN e UISP; sono quelle competizioni a cui giovani e meno giovani partecipano più per divertirsi che per velleità di professionismo calcistico, ma dove comunque si ritrova tutta l’adrenalina del futsal giocato e una buona dose di agonismo. Una squadra tra tante, ma i giocatori del Revolution Soccer Team portano al braccio una bandiera arcobaleno. Potremmo definirla una squadra LGBT. A raccontarci di questa squadra “rivoluzionaria” quanto ordinaria è il presidente Paolo Nieri: «Revolution Soccer Team nasce a Firenze al Piccolo Caffè, un locale gay dove io e alcuni amici ci siamo ritrovati, ormai quasi 10 anni fa, per fondare la prima squadra gay-friendly della città. Lo abbiamo fatto per divertirci certamente, ma soprattutto per giocare a calcio in modo rilassato. senza subire il machismo ancora fortemente legato all’ambiente calcistico. Volevamo una squadra in cui potessimo limitarci a giocare e a ridere, senza dover per forza parlare di “donne” in spogliatoio». Il pensiero di Paolo arriva forte e chiaro. Il calcio è uno sport, certamente, ma è anche uno svago con connotazioni ben precise e che si lega a una serie infinita di stereotipi. Quando lo stereotipo calcio si scontra con lo stereotipo omosessualità, il risultato può essere diffidenza o addirittura dileggio da parte di chi incontra questa squadra sul rettangolo di gioco. «Non abbiamo mai avuto manifestazioni palese di omofobia, sicuramente commenti a bordo campo; se perdono però si incazzano, perché perdere contro una squadra gay li fa incazzare parecchio…».
Da questa storia ordinaria è nato un documentario: Il calciatore invisibile, presentato il 5 ottobre a Firenze in occasione del Florence Queer Festival. «La sala era completamente piena ed è stato recepito molto bene dal pubblico – racconta Matteo Tortora, regista del documentario – Ho accettato di lavorare a questo progetto per raccontare un aspetto sociale dell’omosessualità che viene poco affrontato: lo sport. Si parla spesso di coming out, discriminazione, ma raramente si aspettano gli aspetti più ordinari. Quello che ho trovato, seguendo la squadra per circa un anno, è un gruppo di amici che si ritrovano con spensieratezza. Notavo che spesso, invece, gli avversari portavano in campo i loro problemi, giocando con rabbia, mentre i giocatori di Revolution Soccer Team quando sono in campo non vogliono pensare a nient’altro». Nel documentario ci sono alcune interviste di pregio a corredare il quadro che racconta come l’omosessualità sia taciuta nel mondo del calcio maschile. Tra le tante voci emergono quella di Prandelli e di Costacurta. «Non è stato difficile parlare con loro. Dietro il film c’è una produzione che si è occupata dell’organizzazione delle interviste e loro sono stati scelti anche perché potevano dare un contributo positivo alla discussione. E così è stato. Tra l’altro Costacurta nel 2015 è stato uno dei testimonial del Pride di Milano».
Se con i singoli personaggi è andata bene, la stessa disponibilità non c’è stata dai grandi club di serie A a cui sono andati a bussare per la realizzazione del Giocatore Invisibile: «Dovevamo girare una scena allo stadio di Firenze, ma non è stato possibile alla fine. Fissavamo una data per le imprese e veniva puntualmente rimandata per esigenze societarie. Alla fine abbiamo girato in uno stadio fuori Firenze. Io non credo che si tratti di ostruzionismo, ma poca attenzione verso l’argomento». Negli anni passati stampa e società professionistiche italiane non hanno dato grandi prove di coraggio nell’esporsi sulle tematiche sociali più delicate legate al calcio. Pensiamo al calcio femminile: solo oggi si vedono i primi passi avanti nel dare alle donne calciatrici la giusta dose di attenzione e di risorse per far crescere un movimento, che in Italia ha fatto sempre più fatica che nel resto del mondo occidentale. Apripista (mediatica) è stata la Juventus mettendo su una squadra femminile costruita per vincere e per far parlare di sé con le sue stelle, attivissime sui social. Certo non è ancora abbastanza per dimenticarsi delle dichiarazioni di Belloli, allora presidente della LND che durante una riunione ufficiale disse “Basta! Non pensiamo sempre di dare soldi a queste quattro lesbiche”. Se infatti è impensabile parlare di omosessualità nel mondo del calcio maschile, nel calcio femminile sembra essere una conditio sine qua non, l’ennesimo stereotipo. Una convinzione tutta italiana che sconforta i genitori delle bambine che vogliono avvicinarsi al mondo del calcio e le ragazzine stesse, talvolta costrette a interrogarsi sul loro orientamento sessuale solo a causa della loro passione per il calcio. Ne Il calciatore invisibile la tematica non si affronta perché come ci ha spiegato il regista Tortora, «ci sarebbe voluto un lavoro a se stante, per la vastità dell’argomento».
Il calciatore invisibile è un documentario che prima ancora di porre degli interrogativi, vuole intrattenere, condito di ironia e spontaneità toscana che raccontano fedelmente la realtà del Revolution Soccer Team che tutti gli anni organizza la “Finocchiona Cup” un torneo che sa prendersi in giro e a cui partecipano tutte le squadre gay-friendly italiane. Le riflessioni poi vengono fuori spontaneamente nel documentario, parlando di futsal: uno sport che per sua natura si presta alla dimensione del divertimento e della condivisione per poi evolversi nelle massime serie in veri show dal tasso tecnico e tattico elevatissimo. Il futsal dalla sua ha un vantaggio grosso, in Italia, rispetto al calcio a 11: è ancora libero, vergine da tutte le dinamiche extrasportive che dominano il calcio stesso. Ci piace pensare che il futsal possa essere un apripista, che sia il luogo dove far nascere dibattiti positivi uniti alla concezione più sana dello sport.